Storie di donne

Linguaggio di genere

La parità inizia con una rivoluzione culturale che auspica un adeguamento del lessico al femminile. Il linguaggio di genere sembra ancora un problema, soprattutto nella lingua italiana.

Un uso consapevole e inclusivo delle parole può contribuire a diffondere una visione paritaria dei ruoli professionali.

Purtroppo molte professioni ancora non vengono declinate con il genere femminile e c’è una strumentalizzazione discriminatoria delle parole.

Protagonista Donna ha intervistato Giuliana Giusti, professoressa ordinaria di Glottologia e Linguistica presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Università Ca’ Foscari.

Una professionista che, attraverso la diffusione di una cultura di identità di genere linguistica, ci darà una visione della situazione attuale sul linguaggio di genere.

C’è ancora difficoltà a comprendere l’uso del genere femminile in italiano?

Direi di sì. Se mi avete contattata è perché ci sono state delle polemiche sull’uso di ‘direttrice d’orchestra’ in una trasmissione recente.

L’argomento viene rinnovato ogni volta che una donna ricopre un ruolo importante, non necessariamente raro per una donna, ma che mette in discussione il retaggio culturale per cui solo gli uomini svolgono professioni prestigiose (come l’avvocatura, la magistratura, la direzione e la presidenza di istituzioni, organi, partiti, ecc).

Ogni volta bisogna ripartire dalle basi: l’italiano è una lingua che ha radici nominali e aggettivali cui bisogna aggiungere una desinenza di genere e numero (maschile/femminile, singolare/plurale).

È importante, anche formalmente, sapere che il femminile non si forma sul maschile.

Il paradigma di un nome, aggettivo, pronome è costituito dalle desinenze possibili e l’italiano è ricco di classi nominali diverse, con paradigmi diversi.

uso della lingua italiana per il genere femminile spiegato dalla professoressa dell'Università Ca' Foscari

Quali sono le parole meno usate al femminile?

Ce ne sono moltissime. Ma per ragioni di spazio colgo l’occasione per raccomandarne solo tre.

  • Medica. Le mediche di base sono moltissime, addirittura si prevede che nel futuro saranno il 60% della totalità dei medici di medicina generale.

Il termine ‘medico’ è un nome che deriva da un aggettivo. Si dice “certificato medico” e “visita medica”: l’aggettivo si accorda con il genere e il numero del nome che modifica.

Il nome ‘medico’ è un nome con il maschile in ‘-o’, la classe più comune, come bambino o monaco e questi nomi hanno un femminile regolare come ‘bambina’ o ‘monaca’.

Perché non funziona per medica? Non si tratta di cacofonia, ma di un uso della lingua che impedisce di far riferimento a una professione di forte prestigio sociale.

  • Architetta. Dal 2017 si susseguono le notizie di approvazione da parte degli ordini professionali del titolo professionale ‘Architetta’ sul timbro, per chi lo voglia usare.

Sarebbe ovvio e normale che non facesse notizia, e invece il web è pieno di queste notizie che si rincorrono da una provincia all’altra e ogni volta c’è chi (spesso donna nella professione) si scandalizza.

Perché? In nessun caso si è dato l’obbligo di utilizzare il termine declinato per il proprio genere anagrafico.

E già questa è una asimmetria: ad un uomo non si prospetta una scelta, a una donna sì.

Ma chiediamoci perché un’architetta vorrebbe farsi chiamare ‘architetto’.

Una volta un’amica, per altro convintamente femminista, mi ha detto: “Faccio già fatica a farmi rispettare dal capomastro in cantiere. Figurati se con il seno che ho mi facessi chiamare archi-tetta…”

Il problema dell’assonanza con parole che possono ridicolizzare la persona (famoso esempio: ministra – minestra) c’è con nomi anche al maschile (‘ministro’ ha assonanza con ‘sinistro’ che può significare grave incidente o losco (figuro)) ma non vengono mai in mente. Perché?

Essendo utilizzate con frequenza, il loro significato è immediatamente disponibile al nostro lessico mentale.

Se usassimo correntemente i femminili, il primo significato che verrebbe in mente è il ruolo.

Se non usiamo i femminili, nel momento in cui li sentiamo, dobbiamo impararli, analizzarli, decodificarli e per fare questo si mettono in moto altri meccanismi mentali. L’atteggiamento culturale sessista fa il resto.

  • Ambasciatrice. Ricordo che il sito dell’ambasciata tedesca, nel periodo 2015-18, definiva Susanne Wasum-Rainer come ‘Botschafterin’ (al femminile) nella pagina in tedesco ma ‘ambasciatore’ in italiano. La motivazione era che a Wasum-Rainer avevano detto che in italiano l’ambasciatrice è la moglie dell’ambasciatore.

Vedo ora, con estremo piacere, che le donne nominate nel ruolo in rappresentanza dell’Italia all’estero e in rappresentanza di paesi esteri in Italia sono chiamate con il termine al femminile anche nel sito del Ministero degli Esteri. E non potrebbe essere altrimenti.

Se ‘ambasciatrice’ fosse il termine per il coniuge (di qualunque sesso) dell’ambasciatore (di qualunque sesso), il marito di un “ambasciatore donna” dovrebbe essere chiamato ‘ambasciatrice’.

Provate a immaginare che confusione si creerebbe e quanto un uomo si sentirebbe ridicolizzato se fosse chiamato ‘ambasciatrice’.

Il fatto che mai un nome declinabile (ad esempio ‘maestra d’asilo’, ‘ostetrica’, ‘casalinga’) rimane invariato al femminile per referenti uomini dimostra che la desinenza di genere in italiano deve accordare con il sesso del referente.

Quando il maschile è attribuito ad una donna, aumenta l’autorevolezza della persona in quel ruolo proprio perché attribuisce il genere maschile al ruolo, non perché sia indeclinabile. Mi sembra una deriva che contribuisce fortemente alla creazione delle cosiddette pareti e tetti di cristallo.

come combattere gli stereotipi del sessismo linguistico con corsi

Come combattere gli stereotipi del sessismo linguistico?

Facendo rete, ad esempio tenendosi in contatto con il gruppo Fb Genere lingua e politiche linguistiche. Usando i termini al femminile in tutti i contesti, soprattutto questi di prestigio.

Ma soprattutto argomentando con pazienza e determinazione. Nel 2014, grazie al finanziamento del mio ateneo (l’Università Ca’ Foscari Venezia), ho ideato e realizzato un MOOC (massive online open course), corso in rete, gratuito, ideato per un gran numero di partecipanti, dal titolo “Linguaggio, identità di genere e lingua italiana”.

Ha avuto ad oggi 3 edizioni nella piattaforma di Ateneo e 5 edizioni nella piattaforma EduOpen che è un consorzio di università di cui Ca’ Foscari è parte.

Ogni edizione ha raggiunto 1500-3000 partecipanti di cui almeno il 30% ha svolto il 70% delle attività e ha ottenuto l’attestato di partecipazione.

Sono quasi 10.000 tra insegnanti, giornaliste/i, studenti, personale amministrativo di istituzioni pubbliche, che sono state sensibilizzate a ragionare su questi temi con strumenti linguistici (fonologia, morfologia, sintassi, semantica, analisi del discorso).

Una buona metacompetenza linguistica (cioè la conoscenza di come funzionano il linguaggio e le lingue che parliamo) può migliorare la nostra vita personale e la società in cui viviamo, permettendoci di distinguere le questioni di forma e di sistema linguistico dalle questioni culturali.

Come insegnare il linguaggio di genere a scuola?

La scuola è il luogo in cui si forma l’identità individuale e sociale delle nuove generazioni. Nella scuola vengono trasmessi i valori culturali, si acquisiscono le norme di comportamento sociale, tra cui la relazione tra pari e con l’autorità istituzionale.

Purtroppo appena si parla di insegnare affettività, parità di genere, libertà nella scelta dei ruoli, succede il finimondo; come se la parità di genere, la libertà individuale di aspirare a tutte le professioni fosse un attacco alla cultura nazionale, ai valori etici.

Come ha mostrato una recente ricerca di Emma Biemmi, i libri di testo sono ancora infarciti di stereotipi che vedono solo gli uomini protagonisti della storia, della scienza, della tecnologia e ancor peggio riducono le donne ai soli ruoli domestici, praticamente inesistenti in qualunque altro ambito.

Manca una ricerca sistematica sugli stereotipi veicolati da esercizi di matematica o grammatica, che sono ancor più pericolosi a mio parere perché nel momento in cui insegniamo quelle discipline non siamo pronte a contestare lo stereotipo sessista che si trova in esercizi formulati come “La mamma va al mercato e compra 12 uova” o “Il papà va in ufficio in macchina e guida per 10 kilometri”.

È proprio in contesti in cui il focus è spostato verso altro (il computo matematico, la coniugazione di un verbo) che lo stereotipo viene interiorizzato senza riflessione.

uso inclusivo del linguaggio di genere a scuola. Come insegnare la parità di genere attraverso la lingua italiana?


Un altro aspetto è l’uso del maschile come genere inclusivo. Soprattutto nei testi di scuola, si dovrebbe fare molta attenzione a mettere sempre esplicitamente in rilievo la presenza di uomini e donne.

Si tratta di un tipo di comunicazione difficile da fare in modo elegante, evitando inutili ridondanze ma appiattendo tutto al maschile generico ancora una volta si rischia di creare identificazione nel maschile di prestigio nelle bambine e mancanza di autorevolezza delle donne nei bambini.

Come comporre il femminile dei titoli professionali per una parità del linguaggio di genere?

Ci sono molte linee guida disponibili in rete di molte istituzioni e associazioni, tra le redattrici più accreditate è doveroso citare Cecilia Robustelli in collaborazione con l’Accademia della Crusca.

Segnalo anche quelle redatte dalla collega Anna M. Thornton per l’Università dell’Aquila che trovo particolarmente buone. Comunque è importante conoscere le “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” del 1987, di Alma Sabatini, disponibili nel sito del Ministero per la Pubblica Amministrazione.

In particolare concordo con A. Sabatini nell’opportunità di evitare i termini in ‘-essa’, a parte ‘professoressa’ e ‘dottoressa’, non tanto perché il suffisso ‘-essa’ nasce come denigratorio di una donna che si atteggia a ruoli che non ha, ma soprattutto perché è un suffisso che deriva il femminile dal maschile e crea quasi sempre un secondo termine affiancandosi al termine declinato al femminile.

Faccio l’esempio di ‘avvocata’ e ‘avvocatessa’. Come abbiamo visto per ‘medico’, anche ‘avvocato’ deriva da un aggettivo, anzi dal participio passato del verbo latino ‘advocare’ (chiamare).

I participi passati concordano in molti contesti sintattici per genere e numero: come in “Questa persona che è stata chiamata” dove ‘stata’ e ‘chiamata’ sono femminili singolari che concordano con ‘persona’.

I participi passati e i nomi che hanno la loro struttura morfologica sono formati da una base che termina in -at- a cui si aggiunge la regolare declinazione ‘-a/o, -e/i’. ‘Avvocata, avvocate, avvocato, avvocati’ è un paradigma regolare e produttivo.

Il termine ‘avvocatessa’ non ha un maschile ‘avvocatesso’ e si colloca quindi come eccezione nel sistema, è in competizione con ‘avvocata’, che è più breve ed esiste già nella tradizione liturgica italiana (e latina).

Il fatto che esista in un contesto tradizionale dovrebbe rafforzarne l’uso e non essere una motivazione per sostituirlo. Ammettere l’uso di ‘avvocatessa’ è legittimo a mio parere in un contesto di descrizione linguistica (il termine esiste e va documentato).

Mi sembra meno giusto farlo all’interno di linee guida che dovrebbero guidare verso la creazione di una norma, consigliando le forme più simmetriche.

linguaggio di genere e violenza sulle donne. Cosa fare?

Il linguaggio di genere incide sulla violenza sulle donne?

Si è cercato di rispondere a questa domanda in un convegno internazionale che ho organizzato a Ca’ Foscari nel 2018 dal titolo LIGHTS (Linguaggio, genere, e parole d’odio /Language gender and HaTe Speech) in collaborazione con il CUG di Ca’ Foscari, il GSPL (gruppo di studio per le politiche linguistiche della SLI – Società di Linguistica Italiana) e molte associazioni della società civile tra cui Toponomastica Femminile e Rete per la Parità.

La risposta che abbiamo dato nel capitolo introduttivo agli Atti del convegno, scritto con Gabriele Iannàccaro dell’Università di Milano Bicocca è positiva . Un uso non-sessista della lingua aiuta a combattere la violenza verbale.

Sappiamo poi che la violenza verbale va di pari passo con la violenza fisica. Fare quindi il secondo passaggio logico mi sembra legittimo.

Le persone invisibili non hanno autorevolezza, la violenza verbale svilisce il suo bersaglio riducendolo a oggetto (per le donne anche sessuato), la persona e la categoria di persone oggetto di violenza verbale si trovano isolate socialmente e sono più facilmente oggetto di aggressione anche fisica.

Quale messaggio vuole trasmettere alle nostre donne protagoniste?

Vorrei concludere dicendo che le questioni linguistiche non sono mai semplici. Il linguaggio è una capacità umana complessa che interagisce con la natura biologica e sociale della specie.

A livello biologico, l’essere umano è predisposto ad acquisire una o più lingue attraverso processi cognitivi che sono attivi fin dai primi giorni e continuano per tutta la durata della vita.

A livello sociale le lingue che parliamo ci danno le parole che definiscono i concetti culturali e li tramandano; le diverse varietà di ciascuna lingua hanno il potere di creare o negare l’appartenenza di una persona ad un determinato gruppo sociale.

I pregiudizi sul “parlare bene o male” sono moltissimi e non riguardano solo il genere. In questo senso credo che lo studio del linguaggio, della lingua italiana e delle sue varietà in tutte le loro manifestazioni (scritte o parlate, native o non native) non debba rimanere limitato agli ambiti accademici delle numerosissime discipline linguistiche che sono molto avanzate in Italia e nel mondo.

La cultura italiana, attraverso i media, ha bisogno di sviluppare una conoscenza scientifica condivisa di questi temi per elaborare un atteggiamento consapevole che permette di riflettere sulle proprie abitudini linguistiche in modo responsabile e libero da stereotipi (non solo di genere).

Come per la lotta al virus anche la lotta agli stereotipi linguistici passa attraverso i progressi della scienza.

Dobbiamo abituarci a pensare alle questioni linguistiche come oggetto di scienza e non di estetica o eleganza.

Il dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Università Ca’ Foscari Venezia ha ricevuto il riconoscimento di Dipartimento di Eccellenza nel 2017 e sta portando avanti un progetto di sviluppo finanziato dal MUR sulla diversità linguistica e culturale di cui il genere è un tassello di un quadro interessante e complesso.

Scrivi per noi
Grazie davvero per questo contributo prezioso. I chiarimenti sul linguaggio di genere contribuiscono a diffondere un uso consapevole della lingua italiana.

La Redazione di Protagonista Donna aspetta
le vostre opinioni nei commenti.

Elisabetta Valeri


6 thoughts on “Linguaggio di genere

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